La legge 104 e il reddito di cittadinanza

I chiaroscuri di Giuseppe Savagnone

Le polemiche di questi giorni sull’utilizzo della legge 104 da parte dei dipendenti pubblici inducono ad alcune riflessioni di più ampio respiro sulla situazione del Sud Italia e sulla sua massiccia adesione alla proposta dei 5stelle di istituire un “reddito di cittadinanza”. Ma andiamo per ordine.

All’origine del “caso” giornalistico a cui ci riferiamo c’è stata una coraggiosa dichiarazione del neo-governatore della Sicilia, Nello Musumeci, che, nel corso di una conferenza stampa, ha denunciato le difficoltà in cui il governo regionale si trova per realizzare una corretta gestione del personale, a causa di una rete di privilegi e di “diritti” che rende praticamente inutilizzabile o scarsamente utilizzabile una parte consistente degli impiegati. Un ruolo importante in questa paralisi l’avrebbe, secondo Musumeci, l’elefantiasi della rappresentanza sindacale e delle prerogative ad essa attribuite. «Ci sono 2.600 dipendenti dirigenti sindacali e non possono essere distaccati». Ma l’attenzione dell’opinione pubblica si è concentrata su un altro punto della conferenza stampa: «È possibile» – si è chiesto il governatore – «che su 13mila dipendenti, 2.350 usufruiscano della legge 104?».

Si badi bene, la critica di Musumeci, come egli stesso ha tenuto a precisare, non è rivolta alla «Legge 5 febbraio 1992, n.104». Essa, di per sé, nasce da una reale esigenza umana e sociale di garanzia per le fasce più deboli della popolazione, consentendo permessi sul lavoro e facilitazioni nei trasferimenti ai disabili e soprattutto a coloro che devono assistere congiunti non autosufficienti. Si tratta, dunque, di una conquista di civiltà, che nessuno vuole mettere in discussione.

Ma è proprio per salvaguardare la dignità di questa conquista che essa deve essere tutelata dalle falsificazioni e dagli abusi dei soliti “furbetti”, che in Italia – come dimostrano i dati sulla corruzione – sono numerosi più che mai. E forse al Sud – almeno per il comparto pubblico – più che altrove.

Non è un sospetto malevolo, furto di radicati pregiudizi. Emblematico il caso dei dipendenti del Ministero della Pubblica Istruzione. Da uno studio dell’autorevole rivista «Tuttoscuola», peraltro fondato su dati del Ministero, risulta che «rispetto alla media nazionale del 10% di professori delle superiori che si sono avvalsi della precedenza della “104” nei trasferimenti da una provincia ad un’altra» la percentuale nel Nord Ovest «è stata soltanto del 2,3%, nel Nord Est dell’1,8% e nel Centro del 4,6%» contro il 23,5% della Sicilia o il 24% della Calabria. Per non dire delle materne e delle primarie. Per l’anno 2017/2018 «un maestro su 5 si è avvalso della precedenza per assistenza a familiari con disabilità. Tra questi, il 90% ha richiesto il trasferimento al Sud. In particolare, il 75% in sole tre regioni: Campania, Calabria e Sicilia». Se si guardano i numeri complessivi, sempre secondo la rivista, «uno su 100 al nord, più di uno su 2 nel Meridione».

Dove, teniamolo presente, a essere penalizzati da questi strani squilibri territoriali nei trasferimenti non sono tanto i docenti del Nord, che in Sicilia o in Calabria non hanno alcun interesse a venire, ma quelli meridionali che vengono scavalcati in graduatoria da colleghi che hanno un punteggio inferiore. Così come, del resto, a essere danneggiati dal dilagare dei permessi sul lavoro sono i cittadini del Sud, che hanno amministrazioni pletoriche – in Sicilia i dipendenti regionali sono cinque volte quelli della Regione Lombardia, che però ha il doppio degli abitanti! – , ma sono al tempo steso condannati a sentirsi dare, come spiegazione dei ritardi e delle disfunzioni, la “mancanza di personale”.

Il fenomeno non è, comunque, di oggi. A scorrere i dati relativi agli anni scorsi, si vedrà che sono caratterizzati dallo stesso squilibrio territoriale, tra Nord e Sud, dei numeri relativi alla legge 104. O gli uomini e le donne meridionali sono più cagionevoli e bisognosi di assistenza di quelli del Nord, oppure ci sono delle utilizzazioni distorte che vanno assolutamente denunciate e bloccate. E qui vale la pena di tornare alla conferenza stampa di Musumeci: «In Sicilia», ha denunciato il governatore, «ci sono dipendenti della Regione che si sono fatti adottare da anziani malati per potere beneficiare della legge 104 per l’assistenza».

È appena il caso di dire che i sindacati di categoria hanno replicato a muso duro, respingendo le accuse e invitando Musumeci a convocarli per patteggiare, piuttosto, migliori condizioni per i lavoratori da essi rappresentati. Non è dunque da essi che bisogna aspettarsi una svolta. E neppure dai controlli, di cui viene periodicamente invocato il rafforzamento, a seguito di un’ennesima truffa (nel 2015 ad Agrigento un’inchiesta portò alla luce una vera e propria organizzazione dedita a fornire false documentazioni per permessi e trasferimenti nella pubblica amministrazione), con esiti evidentemente insignificanti.

Il problema è culturale e non sarà risolto se non promuovendo vigorosamente al Sud una cultura del lavoro che, nella maggior parte della popolazione, non esiste. Nel Meridione sono in molti a cercare, più che un posto di lavoro, un “posto di stipendio”, dove si lavori il meno possibile.

E qui entra in gioco la riflessione che riguarda il “reddito di cittadinanza” proposto ai 5stelle. Perché non c’è dubbio che, a dispetto delle dichiarazioni di Di Maio sul fatto che esso non sarà un alibi per i fannulloni, il contesto che abbiamo appena descritto getta un’ombra inquietante sul significato che di fatto esso potrebbe assumere nelle regioni meridionali. Le dichiarazioni di principio – abbiamo visto quelle relative alla legge 104 – si infrangono di fronte a un costume imperante che le metabolizza e le sfigura, trasformandole nella loro stessa parodia.

Del resto, tutta la battaglia elettorale dei 5stelle, basata sulla indignazione (del tutto condivisibile) per i vitalizi e gli altri privilegi della classe politica, non ha speso nemmeno una piccola percentuale di questa indignazione per gli abusi e gli sprechi di denaro pubblico perpetrati dai semplici cittadini nei confronti del bene comune, di cui l’uso distorto della legge 104 è un esempio. Né risulta che abbiano proposto – come bisognerebbe sicuramente fare – dure sanzioni per i “furbetti” che ne sono responsabili. Come se i governanti non fossero stati lo specchio della popolazione che li aveva eletti…

E così, ora c’è chi si aspetta che con i soldi tolti ai vitalizi sarà possibile avere il reddito di cittadinanza! Senza rendersi conto che – a parte la disparità delle cifre in gioco – il vero problema (come dimostra il caso dell’abuso della legge 104) non è di spostare dei privilegi da una categoria all’altra, ma di riscoprire, in Italia, il senso di un bene comune che deve spingere tutti – parlamentari e semplici cittadini – a svolgere con piena coscienza il loro servizio alla comunità, ognuno secondo il proprio ruolo.

Solo sulla base di questo chiarimento di fondo e di una politica culturale che, a partire da esso, miri efficacemente a rinnovare la situazione, l’attribuzione di un reddito di cittadinanza non si risolverà in un’ulteriore occasione per “mungere” lo Stato senza dar nulla in cambio. Saranno capaci i 5stelle di questo? E, soprattutto, saranno disponibili gli “indignati” che protestano contro i politici – per poi fare, a loro volta, nel loro piccolo, le stesse scorrettezze – a cambiare ottica? È più facile prendersela con un capro espiatorio “altro” che non rimettere in discussione se stessi. Ma il futuro del Sud – come quello del nostro intero Paese – dipende dalla risposta a queste domande.