Io non giurerò. Il Vangelo secondo Matteo (Salvini)

I chiaroscuri di Giuseppe Savagnone

Non è stata forse valorizzata come meritava la notizia che Matteo Salvini, a Milano, nel comizio con cui ha chiuso la campagna elettorale, si è presentato alla folla dei suoi sostenitori tenendo in mano un rosario e il vangelo. E che proprio in nome di quest’ultimo ha formulato il suo giuramento di fedeltà al popolo italiano: «Giuro» – ha detto solennemente – «di applicare davvero la Costituzione italiana, da molti ignorata. E giuro di farlo rispettando gli insegnamenti contenuti in questo sacro Vangelo. Io lo giuro, giurate insieme a me?».

Si tratta di un avvenimento importante, perché sposta la questione della credibilità della Lega dal terreno strettamente politico a quello religioso. Del resto, che la Lega punti su questo collegamento lo dice già il fatto che le due regioni dove si è maggiormente diffusa, in questi anni, sono quelle storicamente più impregnate dalla tradizione cristiana, Lombardia e Veneto. Dunque, Salvini ha giurato di rispettare – se, come appare probabile, andrà al governo – il Vangelo. E ciò giustifica la domanda di quale Vangelo si tratti.

La copia che ho a casa, purtroppo, non è aggiornata, perché risale a circa duemila anni fa. Dovrò dunque scoprirlo dalle dichiarazioni dello stesso leader della Lega e dei suoi compagni di partito. Può essere interessante, però, per capire l’evoluzione della fede e le forme che essa assume negli italiani di oggi – quelli a cui Salvini si rivolge e che invita a giurare insieme a lui sul testo sacro – , un confronto tra le due versioni.

Scelgo un punto essenziale. Leggo nel “vecchio” testo di Matteo (l’apostolo) che Gesù, interrogato su quale fosse «il grande e primo comandamento» (Mt 22,38) – da cui tutto il resto dipende – , rispose che era quello di amare Dio e, inscindibilmente connesso con esso, quello di amare il prossimo. Luca, a sua volta, riferisce che il fariseo a cui la risposta era stata data, volle un ulteriore chiarimento: «E chi è mio prossimo?» (Lc 19,29). Questione decisiva, per capire che cosa questo comandamento significhi concretamente. Perché anche nel giudaismo, prima di Gesù, si parlava di amore per il prossimo, ma si intendevano per “prossimo” solo gli altri membri del popolo ebreo, contrapponendo quest’ultimo a quelli stranieri, considerati una minaccia per la purezza della sopravvivenza e della fede di Israele.

Gesù rispose con un racconto che tutti conosciamo come quello del “buon Samaritano”. Non lo rievocherò, se non per ricordare che tra Samaritani ed Ebrei c’era un’aspra inimicizia dovuta sia alla diversità etnica (i Samaritani erano immigrati trasferiti in Palestina molto dopo lo stanziamento degli Ebrei) che a quella religiosa (rifiutavano la religione del Tempio). Gesù ha scelto dunque, per la sua parabola, un protagonista particolarmente imbarazzante. Eppure è proprio lui – non il sacerdote o il levita – quello che soccorre il povero ferito, lo cura e lo fa alloggiare a sue spese. Ma la cosa più importante è la domanda finale che Cristo pone al suo interlocutore: «“Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?”. Quello rispose: “Chi ha avuto compassione di lui”. Gesù gli disse: “Va’ e anche tu fa’ così”» (Lc 10,36-37).

Invece di individuare chi è il nostro prossimo, stabilendo delle categorie di maggiore o minore vicinanza, si tratta dunque di rendersi conto che siamo noi a dover “farci” prossimo degli altri – di tutti gli esseri umani, anche dei più lontani, perfino dei nemici (com’era il Giudeo per il Samaritano). E la ragione ultima di questo è che nell’altro – specialmente se è povero – è Cristo stesso che chiede il nostro aiuto. Lo dice ancora il Vangelo di Matteo (sempre l’apostolo): «Perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”» (Mt 25,35-40).

Cosa dice, su tutto questo, il Vangelo di Salvini? Lo ricaviamo da un’intervista su Sky Tg24 dei primi di dicembre scorso, in cui si è soffermato sul problema dei profughi. Per lui è in corso «un’invasione pianificata del nostro paese. Un tentativo di sostituzione etnica dei nostri lavoratori con dei disperati». Il leader della Lega certo è al corrente dell’inferno da cui fuggono i civili inermi provenienti al Congo, dal Sudan, dalla Libia, dalla Siria. Ma per lui quello a cui stiamo assistendo, dice nella stessa intervista, è «un arrivo di una massa di nullafacenti o delinquenti che non scappano dalla guerra ma la guerra ce la stanno portando in casa». Perciò conclude: «Chiunque mi aiuti a bloccare questo tentativo di sostituzione etnica è benvenuto».

L’idea non è solo di chiudere le porte ai profughi, ma di gettarli fuori. Parlando a Recco (Genova) il 18 febbraio su questo tema, Salvini ha spiegato ai suoi sostenitori che «ci vuole una pulizia di massa anche in Italia, via per via, quartiere per quartiere e con le maniere forti».

Non è peraltro la prima volta che queste cose vengono dette da esponenti della Lega appellandosi alla fede cristiana. Perché «la matrice della Lega è cristiana e cattolica e siamo gli unici che veramente hanno radici cristiane», aveva dichiarato Bossi nell’agosto del 2009. E nel 2011 gli faceva eco l’on. Calderoli, che pure nel suo matrimonio, poco prima, aveva preferito il rito celtico a quello cattolico (fidando, evidentemente, nella scarsa memoria degli italiani per i riti matrimoniali): «Noi restiamo saldamente cattolici. Forse tra i pochissimi rimasti».

Alla base c’è una interpretazione del Vangelo chiaramente espressa dall’eurodeputato leghista Borghezio, allora presidente dell’organizzazione “Padania cristiana” ed esponente di punta dell’anima cattolica della Lega: «Siamo e dobbiamo essere pervasi di amore verso i nostri simili ma a cominciare da coloro che fuoriescono dal nostro stesso ceppo». È «solo nell’ambito di questa ben delineata categoria di “prossimità” che deve intendersi il precetto dell’amore fraterno. Di conseguenza, per quanto mi riguarda, non è estendibile al vù cumprà o al vù lavà, certamente prossimi di molte altre persone, ma non del sottoscritto. Grazie a Dio».

È questo il Vangelo su cui ha giurato Salvini sabato scorso, quando ha invitato i suoi commossi ascoltatori – ma in realtà tutti gli italiani – a fare lo stesso votando per la Lega. Credo di avere il diritto, come cristiano, di prendere una chiara posizione su questo punto, che non è più solo politico, ma mette in questione la mia fede. Personalmente sono del tutto d’accordo con il noto storico cattolico Franco Cardini: «Gli antiabortisti che auspicano l’affondamento dei gommoni dei clandestini e che vorrebbero escludere un bambino dal diritto ad avere una casa, a frequentare una scuola, a fruire di un posto-mensa, solo perché è extracomunitario, non sono cattolici nemmeno se riempiono la casa di crocifissi».

Sì, il Vangelo in cui ho trovato il senso della mia vita personale e a cui vorrei che si ispirasse quella del mio Paese, è non solo diverso, ma opposto a quello del leader della Lega. Perciò io non giurerò. E spero con tutto il cuore che quanti sono cristiani sappiano distinguere il Vangelo di Gesù da quello di Salvini.