L’utilità dell’inutile

I chiaroscuri di Giuseppe Savagnone

Buone notizie per il nostro liceo e per l’Italia: le iscrizioni alla secondaria superiore, appena conclusesi, hanno fatto registrare anche quest’anno una tenuta, anzi una crescita dei licei, scelti dal 55,3% dei ragazzi e delle ragazze. L’aumento più significativo riguarda il liceo scientifico, in cui le nuove iscrizioni sono passate dal 25,1% dello scorso anno al 25,6%, e il liceo delle scienze umane, con un incremento dal 7,9% all’8,2%. Ma anche le richieste di iscrizione al liceo classico crescono, se pure più modestamente, dal 6,6% del 2017 al 6,7% del 2018, così come quelle del liceo linguistico, che passano 9,2% al 9,3%.

In una società che vede sempre più prevalere la logica del denaro e dove la cultura appare sempre meno necessaria per avere successo, è quasi un miracolo che molti italiani continuino a puntare, per i loro figli, su un tipo di studi apparentemente meno adatti a garantire un’applicazione pratica e che qualcuno potrebbe addirittura bollare come “inutili”.

Forse perché, perfino nel trionfo del consumismo e della sua logica, fondata sul principio dell’ “usa e getta”, si mantiene l’oscura percezione che c’è una differenza tra ciò che è “utile” e ciò che è “importante” e che il primo, proprio perché vale solo in quanto serve a qualcos’altro, può benissimo essere gettato via dopo aver assolto la sua funzione puramente strumentale, mentre il secondo non trae il suo significato e la sua preziosità dal “servire”, ma dal suo “essere” se stesso. È la differenza tra mezzi e fini. Che sia necessario, a un singolo come a una collettività, curare i mezzi, è evidente, e tutti godiamo dei progressi prodigiosi che la tecnica ha registrato in questi ultimi decenni. Ma i mezzi hanno un senso – nella duplice accezione di “significato” e di “direzione” – perché consentono di raggiungere un fine che non sia a sua volta solo un mezzo per qualcos’altro. Altrimenti tutto si riduce a una corsa ad ostacoli che non va da nessuna parte.

Ecco, gli studi liceali danno ampio spazio alle conoscenze che non valgono per i risultati immediati, ma in se stesse: la letteratura, la storia, la filosofia, le arti. E hanno un fine educativo che non mira a formare dei tecnici, abili nel fare certe cose, ma delle personalità riflessive e umanamente mature. Si potrebbe dire che, da questo punto di vista, hanno ragione coloro che accusano questi studi di essere “inutili”. Essi non sono puramente strumentali. Ma, in questo senso, anche un essere umano è “inutile”, perché non può essere solo un mezzo e considerarlo solo in funzione di ciò a cui può “servire” ne misconosce il valore intrinseco e inalienabile. E se purtroppo, nella nostra società, anche le persone spesso vengono assoggettate alla logica dell’“usa e getta”, proprio la grande tradizione culturale a cui il liceo si ispira costituisce una permanente denuncia di questa aberrazione.

In realtà, però, anche ciò che non è puro mezzo e che perciò può essere definito “inutile”, sotto un certo profilo ha una sua specifica “utilità”. La conoscenza della verità, l’esperienza del bene, la fruizione della bellezza, non valgono in funzione dei risultati che possono produrre, ma hanno una ricaduta sulle persone e sulle comunità che le rendono più vantaggiose, per gli essere umani, di tutte le cose “utili”. L’arte non può mai essere ridotta a un mezzo. Chi contempla un capolavoro è innamorato della sua bellezza in modo disinteressato. Non cerca null’altro. meno che mai, dei vantaggi materiali. Considerare la “Gioconda” solo dal punto di vista di ciò che se può ricavare in termini economici o pubblicitari significherebbe misconoscerne il valore intrinseco. E tuttavia questa contemplazione ha un’intima risonanza che trasforma colui che ne fruisce. Così come la penetrazione del significato della realtà e della vita, che si realizza esercitando l’intelligenza nel gusto della verità, ha già in se stessa il suo valore, e tuttavia, aprendo la mente e illuminandola, cambia l’esistenza di chi fa questa esperienza.

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Così, se per “utilità” si intende un risultato concreto, gli studi del liceo sono senz’altro “inutili”. Ma, alla fine, per la ricaduta che hanno sulle persone, sono di gran lunga i più fruttuosi e, paradossalmente, i più “utili” ai singoli e alla società. Finché i licei tengono, si può ancora sperare che ci saranno persone che non si identificheranno con lo spettatore-tipo del “Grande Fratello” e dell’ “Isola dei famosi”, o dei programmi della De Filippi, e che non riterranno il festival di Sanremo l’evento dell’anno.

E questo è un bene per loro, ma è un bene per tutti, perché il livello culturale della gente incide in modo decisivo su tuti gli aspetti della vita della collettività, a cominciare da quello politico. L’Italia attraversa da questo punto di vista una crisi paurosa, di cui l’elevatissimo tasso di astensionismo è un indice eloquente. Ma forse ancora più drammatico del non voto è il voto dato, in questi anni, sulla base di stati emotivi, di falsi calcoli, di illusioni ottiche, resi possibili da una scarsa capacità critica che la scuola avrebbe avuto il compito di dare.

Peraltro, all’ignoranza e alla mancanza di attitudini riflessive degli elettori fanno un perfetto riscontro quelle degli eletti del recente passato e dei candidati delle prossime elezioni. Il populismo trionfante ha reso ancora più drammatica una situazione che già con l’avvento della Seconda Repubblica aveva segnato una evidente caduta di qualità culturale. Gli esami di italiano a cui si vorrebbero sottoporre gli stranieri, prima di dare loro la cittadinanza, difficilmente sarebbero superati da alcuni “onorevoli” attuali e da molti di quelli futuri. E meno ancora sarebbero i promossi se se ne facessero di logica…

Benvenuta, dunque, la ripresa dei licei, nella speranza che il progetto della ministra Fedeli (esempio luminoso di quanto detto or ora) di ridurli a quattro anni – e in generale il tentativo dei “politici” di demolirli prima che essi possano demolire o almeno mettere in discussione il loro potere – non abbia successo. Oggi la battaglia per salvare la cultura dall’imbarbarimento che la minaccia è diventata quella decisiva, da cui dipende tutto il resto. Non possiamo essere sicuri di vincerla, perché gli attuali scenari nazionali e internazionali fanno accapponare la pelle. Ma possiamo combatterla con tutte le nostre forze, rifiutando di arrenderci.