La trattativa per il nuovo governo: la tragedia e la farsa

I chiaroscuri di Giuseppe Savagnone

Secondo Marx la storia insegna che le grandi tragedie finiscono spesso in grandi farse. Forse si può anche provare a capovolgere questa affermazione e sostenere che le grandi farse spesso finiscono in grandi tragedie. Entrambe le tesi – apparentemente contraddittorie – trovano una plausibile applicazione nell’attuale situazione della politica italiana, inchiodata a una trattativa tra Lega e 5stelle che dura ormai da più di dieci giorni, senza contare l’estenuante teatrino che ha preceduto quest’ultimo tentativo di accordo, e che ha costretto gli italiani al ruolo di sgomenti spettatori da ormai due mesi e mezzo.

Non entro qui nel merito delle indicazioni contenute nel cosiddetto “contratto” e che meritano una trattazione a parte. La tragedia/farsa a cui mi riferisco è nel metodo che si sta seguendo e nella contemporanea pretesa che esso costituisca già di per sé un’anticipazione della nascente Terza Repubblica.

«Per la prima volta nella storia», ha detto Di Maio, «si porta avanti una trattativa che mette al centro i temi che rappresentano tutte le esigenze degli italiani e questo ci rende ancora più orgogliosi».

Saremmo davanti, insomma, a una rivoluzione che porta finalmente in primo piano gli interessi della gente invece che quelli dei partiti e della classe politica. «Per la prima volta nella storia». Un’affermazione che rientra nello stile dei vincitori delle elezioni politiche del 4 marzo, da sempre proteso a convincere il Paese che siamo a un punto zero, rispetto a cui tutto ciò che è avvenuto finora nella politica italiana è stato immondizia.

Nessuna concessione all’ipotesi che altri abbiano potuto, prima d’ora, avere a cuore il bene della gente e non il proprio, che, accanto a tanti errori e a tante prevaricazioni, ci siano state anche scelte giuste, misure appropriate, progetti condivisibili. Di fronte alle luminose figure di Di Maio e Salvini, spariscono uomini di Stato come De Gasperi, Dossetti, Moro, Scalfaro e tanti altri che hanno ricostruito l’Italia dalle macerie della guerra, gestendo un enorme consenso popolare (ben maggiore di quello dei 5stelle), ma restando poveri – De Gasperi, quando andò negli Stati Uniti, dovette farsi prestare un cappotto – e fedeli al loro impegno di servire il Paese…

29 Dec 1971, Rome, Italy — Senators and Deputies fill the flag-draped Chamber of Deputies to witness President Giovanni Leone (standing at second highest row of desks facing deputies) take the oath of office. — Image by © Bettmann/CORBIS

Eppure qualcosa di vero c’è, nella trionfante dichiarazione del leader dei 5stelle. Qualcosa sta accadendo, in Italia, «per la prima volta nella storia». Per la prima volta la partitocrazia – il prevalere dei partiti, o, meglio, delle loro oligarchie interne, sulle logiche parlamentari previste dalla Costituzione – si esibisce in tutta la sua rozza pretesa di potere, senza neppure tentare di mascherarsi. Due leader di partito stanno decidendo tra loro, con un contratto “privato” (si legga il testo appena varato, che parla dell’accordo tra due “signori”), cosa voterà il Parlamento, sostituendosi ai deputati e ai senatori eletti dal popolo, anzi senza neppure consultarli. In aula non ci sarà bisogno di discutere nulla. Tutto si sta decidendo fuori, con l’appello ai militanti, ai fedelissimi, nelle piazze e online, sensibili al carisma dei leader, nello stile che già Salvini ha inaugurato nel suo fatidico appello preelettorale: «Giurate? Giurate?…»

Ma neppure il governo avrà nulla da fare, se non eseguire le direttive dei due partiti vincitori. È l’evidente conseguenza del capovolgimento della prassi per la sua formazione, che prevede, a norma di Costituzione, la nomina di un premier a cui viene affidata la scelta dei ministri e la formulazione del programma. Ormai – questo sì, «per la prima volta nella storia», almeno italiana – il presidente del Consiglio sarà solo un esecutore, senza neppure quel margine di autonomia che in passato gli veniva lasciato dai partiti. Come meravigliarsi che si stenti a trovare un «politico di altissimo profilo» che accetti questo ruolo mortificante, per lui e per il governo che presiederà?

A meno che non si scelga in realtà un tecnico – in stridente contraddizione con l’esasperato rifiuto di una simile soluzione, quando a ipotizzarla era il capo dello Stato –, sostenendo che è un politico, naturalmente «di altissimo profilo». Operazione tutt’altro che impossibile, nel tempo della post-verità, quando anche le notizie false è come se fossero vere, perché c’è gente disposta a considerarle tali. E del resto, se non fosse per la incapacità di distinguer il vero dal falso e per la mancanza di memoria degli italiani, come riuscirebbe la Lega a farsi credere un partito “nuovo”, dopo essere stata per tanti anni al governo con risultati disastrosi ed essersi presentata alla elezioni insieme al più compromesso e “vecchio” (in tutti i sensi) leader del recente passato?

Ma la tragedia/farsa non riguarda solo i “vincitori”. Non è tale forse quella di un PD che continua imperterrito a parlare di se stesso, dei suoi equilibri interni di potere, invece che dei motivi di fondo del suo fallimento storico, mentre la nave (non solo dello stesso PD, ma dell’Italia intera ) affonda?

Così come tragedia/farsa è quella di Berlusconi, la cui riabilitazione ha certamente costituito motivo di rassicurazione e di speranza per tutti i disonesti d’Italia (e sono parecchi), che erano stati spiazzati dall’imprevisto prevalere della legalità, in occasione dalla sua condanna. Ora che le cose sono di nuovo a posto, e la legge torna finalmente a essere severissima con i deboli e tollerantissima con i ricchi e i potenti, si può perfino sperare che, se in extremis fallisse la trattativa tra Di Maio e Salvini sul nome del premier, si possa finalmente seguire la via indicata sin dall’inizio dall’ ex-cavaliere (ma anche il titolo bisognerà ridarglielo!), che proponeva all’alleanza di destra di andare in Parlamento a cercare i voti mancanti (e lui sa bene, perché lo ha già fatto, come trovarli…).

E allora? Non ho fatto queste riflessioni perché abbia in tasca una ricetta per risolvere i problemi, ma perché credo ancora che una democrazia potrà esistere finché ci sarà chi ha il coraggio di dire ad alta voce (e per fortuna non sono certo il solo, in questi giorni) che il re è nudo.

Non ho ricette, ma solo qualche debole speranza. Il nuovo Parlamento è fatto da persone in gran parte giovani e che non vengono dai ranghi delle formazioni politiche, vecchie e nuove, sotto le cui sigle sono stati elette. Queste persone non possono non percepire fin da ora con inquietudine la loro irrilevanza e si chiederanno prima o poi che senso ha la loro presenza, se a decidere tutto sono i vertici, con l’applauso dei loro fans o, nel caso del Pd, un capo assoluto che tiene in mano il partito. Potrebbe allora aprirsi un dibattito all’interno sia dei gruppi parlamentari dei vincitori che di quelli degli sconfitti. E, data la scarsa identificazione ideale dei primi e la cronica estenuazione ideologica dei secondi, non è escluso che si senta il bisogno di chiedersi se una vera svolta non esiga, piuttosto che un “contratto” notarile, una nuova idea di società e un progetto di futuro ben più ampio sia di quelli che la Seconda Repubblica aveva avuto, sia di quelli che Salvini e Di Maio sono riusciti a partorire .

Potrebbe così aprirsi un dibattito che vada ben al di là del sì o del no al diktat dei “capi”, magari sotto la spinta di minoranze che, dalla società civile, premano con le loro critiche e le loro proposte. Si potrebbe tornare a pensare…

Non è una prospettiva a breve termine, lo so bene. Ma la storia insegna che, insieme alle grandi tragedie e alle grandi farse, ci sono le speranze e il tenace impegno di coloro che, andando contro corrente, hanno cercato di aiutare la società ad uscire da questa triste alternativa.